Dopo aver attraversato il vestibolo di ingresso, si entra nell’oratorio vero e proprio. Il suo aspetto rispecchia le caratteristiche tipiche di un oratorio confraternale: l’ambiente è a navata unica, con le pareti - fatta eccezione per quella di fondo - occupate nella parte inferiore da stalli lignei risalenti al XVI secolo, in cui sedevano i confratelli durante le adunanze; quelli addossati alla parete di ingresso erano generalmente riservati ai membri che governavano la Compagnia.
L’ambiente è diviso in tre campate e presenta un soffitto a volte caratterizzato da una decorazione a stucco di fine Seicento, che si fa sempre più ricca in prossimità dell’altare. Essa incornicia una serie eterogenea di dipinti di vario soggetto e di autori per lo più ignoti, in parte tavole e in parte tele, in alcuni casi frammenti di opere perdute, databili tra il XVI e il XVIII secolo: l’impressione che se ne ricava è di una raccolta disorganica, allestita in maniera provvisoria in vista di una sistemazione più confacente, ma mai realizzata.
I dipinti posti lungo le pareti hanno per soggetto episodi della vita di Cristo, della Vergine e di Santa Caterina. La parete di ingresso presenta, rispettivamente a destra e a sinistra, due tele settecentesche raffiguranti l’una Gesù che appare a Caterina nelle vesti di un povero mendicante, tema assai diffuso nell’iconografia della Santa, e l’altra Caterina che beve dal costato di Cristo il sangue della Redenzione, ‘vero nutrimento’ dello spirito, apportatore di salvezza e di vita eterna. Le grandi tele delle pareti laterali della prima campata rappresentano invece, a sinistra, la Natività di Gesù e, a destra, l'Adorazione dei Magi, mentre nella campata successiva si trovano la Natività e la Morte della Vergine, opere risalenti ad una fase avanzata del XVII secolo.
La terza ed ultima campata torna ad ospitare due scene relative a Santa Caterina, entrambe settecentesche. Quella di destra raffigura la Decapitazione di Niccolò di Tuldo, soggetto presente anche nella cappella dedicata alla Santa all’interno della Basilica di San Domenico: l’episodio si riferisce alla vicenda di un gentiluomo di nome Niccolò che, ingiustamente condannato a morte, cadde in una disperazione profonda; in carcere ricevette la visita di Caterina e le parole della Santa, ispirate dalla Grazia divina, lo confortarono a tal punto che egli si lasciò condurre al patibolo “come agnello mansueto”.
La scena di sinistra mostra Caterina davanti al Papa ad Avignone, uno dei momenti più significativi della vicenda della Santa, tanto importante da segnare le sorti del Papato e della Chiesa: grazie alle sue esortazioni, il Pontefice fece ritorno a Roma, ponendo fine alla cattività avignonese, durata oltre settant’anni.
Al di sotto del dipinto, attraverso una grata, è visibile la piccola cella adiacente all’oratorio, sulla cui nuda pietra Caterina si concedeva qualche momento di riposo durante le lunghe notti trascorse prendendosi cura dei malati dello Spedale. In ricordo di ciò, la celletta ospita una statua in terracotta policroma che raffigura Santa Caterina dormiente, opera per lungo tempo ritenuta del Vecchietta, ma in realtà da attribuire ad un autore più modesto e ad un’epoca successiva, probabilmente seicentesca.
La parete di fondo dell’oratorio, che colpisce per la grande profusione di stucchi, è occupata dall’altare maggiore, dove, sotto un baldacchino retto da quattro angeli, i Santi Domenico e Caterina adorano una piccola Madonna col Bambino in marmo, opera di provenienza nordica risalente alla fine del Trecento, che, vista anche la posizione eminente occupata all’interno dello spazio, rappresenta forse la più antica immagine cultuale della Compagnia.
Nel locale adiacente alla sacrestia si conserva infine un bellissimo trittico a fondo oro di Taddeo di Bartolo con la Madonna col Bambino e i Santi Giovanni Battista e Andrea, datato 1400. Ai suoi lati sono appese quattro testate di bara raffiguranti Santa Caterina che protegge sotto il manto quattro confratelli, le Stimmate della Santa, la Deposizione e la Resurrezione di Gesù Cristo, opera di un artista senese dei primi decenni del Cinquecento, da identificare probabilmente con Giacomo Pacchiarotti.