La cappella, ricavata nella parte anteriore dell’antica sacrestia, fu fatta costruire da Niccolò Bensi nel 1466 per custodire la sacra testa di Caterina, la più insigne delle reliquie della Santa, portata a Siena da Roma dopo la sua morte.
Caterina, infatti, si spense a Roma il 29 aprile 1380 e fu sepolta nel cimitero di Santa Maria sopra Minerva, ma di lì a poco, a causa della forte umidità del luogo, fu riesumata e tumulata all’interno della stessa Basilica. Fu in quell’occasione che il beato Raimondo da Capua, all’epoca Maestro generale dell’Ordine dei Predicatori, chiese ed ottenne da Papa Urbano VI l’autorizzazione a staccare la testa dal corpo. La sacra reliquia fu portata in segreto a Siena, all’interno di una borsa in seta tuttora conservata presso la Casa Santuario.
Nel 1385 lo stesso Raimondo riferì al Concistoro della Repubblica che la testa di Caterina si trovava a Siena. Fu così organizzata una solenne processione che partì dalla chiesa di San Lazzaro, fuori porta Romana, e proseguì fino alla Basilica di San Domenico, dove la reliquia trovò collocazione, racchiusa nel busto di rame attualmente esposto nella teca situata a destra dell’ingresso alla cappella.
Dopo la canonizzazione di Caterina, avvenuta il 29 giugno 1461 sotto il Pontefice Pio II, Niccolò Bensi, esponente di una famiglia senese, decise di far costruire questa cappella per dare una degna cornice alla preziosa reliquia. Il mirabile altare marmoreo collocato al centro della parete di fondo venne scolpito nel 1466 da Giovanni di Stefano, sempre per volere dello stesso Niccolò, come attesta l’iscrizione che scorre lungo la base. La sacra testa si trova all’interno dell’incavo centrale, protetta da una grata dorata. Il primitivo busto in rame che la conteneva venne sostituito dapprima da uno in argento, disegnato dallo stesso Giovanni di Stefano, e, nel 1711, da un’urna realizzata da Giovanni Piamontini (attualmente collocata in una cappella del transetto destro), dove la reliquia rimase fino al 1931, quando i domenicani decisero di collocarla nell’attuale urna in argento e smalti a forma di tempietto gotico, realizzata dall’orafo fiorentino David Manetti su disegno dell’argentiere Angelo Giorgi.
Nel corso dei secoli la sacra reliquia è stata più volte interessata da vicende travagliate, rimanendo tuttavia intatta. Nel 1531 rischiò di essere distrutta da un violento incendio divampato nella Basilica, quando uno dei frati, Guglielmo da Firenze, si gettò tra le fiamme, traendola in salvo. Nel maggio 1609, dopo una processione, gli abitanti di Fontebranda tentarono di impossessarsene per custodirla definitivamente nel loro rione; ci furono diverse ore di disordini, finché non intervenne il Collegio di Balia che fece riportare la sacra testa in San Domenico. Quasi due secoli più tardi, nel 1798, la reliquia rimase sorprendentemente illesa in seguito ad un terremoto che danneggiò la Basilica; trasferita in Duomo, all’interno della Libreria Piccolomini, venne ricollocata al suo posto in occasione della domenica in Albis del 1806.
Qualche decennio dopo la costruzione della cappella e dell’altare marmoreo, si dette inizio alla decorazione pittorica delle pareti. Nel 1526 Giovanni Antonio Bazzi, detto il Sodoma, realizzò ai lati dell’altare due dei suoi più celebri capolavori, lo Svenimento mistico e l'Estasi della Santa, che testimoniano l’intensità della preghiera di Santa Caterina. Lo svenimento non era un eccesso ‘sentimentale’, ma un venir meno di fronte alla grandezza dell’amore di Dio. L’estasi, invece, consiste nell’esser completamente presa dalla contemplazione di Dio, tanto che essa viene anche definita rapimento spirituale. Nonostante la ristrettezza della superficie muraria a sua disposizione, l’artista riuscì a conferire a queste scene una straordinaria monumentalità, unendo alla perfezione del disegno e al magistrale accostamento dei colori una struttura compositiva solenne e misurata. Allo stesso Sodoma si deve anche il grande e affollato affresco della parete sinistra, raffigurante la Decapitazione di Niccolò di Tuldo. L’episodio è narrato in una delle pagine più significative delle Epistolario. Nel 1377 Niccolò di Tuldo, un gentiluomo perugino, venne ingiustamente condannato a morte dai magistrati senesi con l’accusa di spionaggio. Una volta in carcere, caduto in una disperazione profonda, ricevette la visita di Santa Caterina, le cui parole lo confortarono a tal punto che egli riuscì ad accordare la propria volontà al disegno divino, lasciandosi condurre al patibolo “come agnello mansueto”.
Il dipinto che occupa la parete opposta venne realizzato ad olio su muro da un altro grande pittore senese, Francesco Vanni, tra il 1593 e il 1596. La scena, ambientata in un loggiato, raffigura Santa Caterina che libera dal demonio un’ossessa, in mezzo allo stupore di un’eterogenea folla di astanti, fatta di nobili, religiosi, mendicanti e popolani, quasi a sottolineare il carattere universale del messaggio della Santa.
Completa la cappella il pregevole pavimento quattrocentesco a commessi marmorei raffigurante Orfeo e gli animali, eseguito su disegno di un artista prossimo ai modi di Francesco di Giorgio Martini.